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giovedì 29 dicembre 2011

"Fanno finta di cambiare tutto per non cambiare niente" . Ivan70

Mario Monti continua a dire che questa manovra salva Italia è stata equa. E adesso comincerà la fase due, la cresci Italia, ma non aspettiamoci miracoli.
Allora chiariamo alcuni punti: 1: Mario Monti è convinto che gli italiani siano un popolo di imbecilli, ed in parte fa bene a pensarlo, visto che per 17 anni una maggioranza di scemi e paraculi a vario titolo hanno votato Berlusconi, ma c’è anche una minoranza pensante che non si è fatta in passato e non si farà nel presente e nel futuro prendere in giro da nessuno. 2. Di equo questa manovra non ha avuto niente! L’hanno pagata i pensionati, i dipendenti, gli statali e i poveracci. Elenchiamo queste equità: In pensione a 70 anni con 40 anni di contributi, ovvero in pensione “ad mortem factum” perché con la precarietà del lavoro attuale nessuno delle nuove generazioni avrà tutti quei contributi versati, quindi di fatto la pensione di anzianità è stata abrogata, ci si andrà per vecchiaia a 70 anni con il sistema contributivo, ovvero la media degli stipendi di una vita, con una pensione da fame, da mensa della Caritas. Aumento dell’IVA al 23% che colpirà pesantemente le classi sociali medio basse che faranno ancora più fatica a provvedere il necessario per se stessi e le loro famiglie. Aumenti sulle bollette di oltre il 20% nel 2012 e una fascia di popolazione taglia sul riscaldamento e l’acqua calda. Aumenti sulle accise della benzina più care al mondo, ormai a 1,72 euro al lt. e biglietti dei mezzi pubblici che aumenteranno fino al 50% nel prossimo anno. Intanto si prevedono almeno due anni di recessione durissima in cui perderemo altri milioni di posti di lavoro, altra disoccupazione e perdita del reddito per milioni di famiglie. 3. Si dissanguano le classi medio basse con tasse da strozzini e poi si dichiara che quei soldi, che servivano per rilanciare la crescita del paese, non saranno usati per questo, ma versati ai mercati finanziari, e quindi la crescita si, ci sarà, ma non aspettatevi miracoli. Allora noi paghiamo una manovra da corte dei miracoli e avremo una crescita da lumaca, e no, non va bene, non va bene per niente, perché a rimetterci anche in questo caso saranno le classi sociali più deboli che vedranno calare sempre di più il potere di acquisto del loro reddito e aumentare le loro spese. E dall’altra parte? La classe ricca del paese? Niente, non paga niente! Nessuna patrimoniale, nessun contributo sui capitali scudati, nessun contributo sui redditi sopra i 70 mila euro, nessuna liberalizzazione delle corporazioni e delle caste di cui è pieno questo paese, nessun accordo con la svizzera per tassare i capitali evasi all’estero, niente di niente, continueranno ad evadere come e peggio di prima, a fare i loro comodi tranquilli senza che nessuno li disturbi! E per finire si regalano le frequenze televisive pubbliche, che frutterebbero all’asta circa 15 miliardi di euro alle casse dello Stato, a Berlusconi, se no si arrabbia… e fa cascare Monti, e la Chiesa Cattolica continuerà a mantenere tutti i suoi privilegi che naturalmente pagheranno i contribuenti italiani. 4. Queste pagliacciate sono buone per incantar gli sciocchi, certamente tanti in Italia, ma chi ancora ha il brutto vizio di usare il cervello per pensare capisce chiaramente che la presa per i fondelli è evidente, ci fottono come è più di prima, con una sola differenza, prima ci fottevano con le pagliacciate di contorno, adesso lo fanno con il “massimo” della SOBRIETA’!

domenica 25 dicembre 2011

"Il racconto della signorina N. N." di Anton Checov


Nove anni fa, un giorno poco prima di sera, al tempo della falciatura, io e Petr Sergeic, che
esplicava le funzioni di giudice istruttore, ci recammo a cavallo alla stazione postale a ritirare le
lettere.
Il tempo era splendido, ma al ritorno udimmo il rumoreggiare del tuono e vedemmo una nuvola
nera e minacciosa che veniva dritto su di noi. La nube si avvicinava a noi, e noi a lei.
Sul suo fondo biancheggiavano la nostra casa e una chiesa, e dei pioppi alti spiccavano come
d’argento. Si sentiva l’odore della pioggia e del fieno. Il mio compagno era in vena. Rideva e diceva
ogni sorta di sciocchezze. Diceva che non sarebbe stato male se avessimo incontrato un castello
medievale con le sue torri merlate, col muschio e le civette, per poterci riparare dalla pioggia e alla
fine essere uccisi dal fulmine.
Ed ecco sulla segala e sul campo d’avena trascorse la prima onda, soffiò violentemente il vento,
e nell’aria cominciò a turbinare la polvere. Petr Sergeic scoppiò a ridere e spronò il cavallo.
“Bene!” gridava, “Benissimo!”
Io, contagiata dalla sua allegria, e dal pensiero che mi sarei bagnata fino alle ossa e forse sarei
stata uccisa da un fulmine, mi misi a ridere anch’io.
Il turbine e la rapida corsa, quando il vento ti soffoca e ti senti come un uccello, ti agitano e
solleticano nel petto.
Quando entrammo nel nostro cortile il vento era cessato e grossi scrosci di pioggia battevano
sull’erba e sui tetti. Presso la scuderia non c’era anima viva.
Petr Sergeic stesso dissellò i cavalli e li condusse alla mangiatoia. Aspettando che egli finisse,
rimasi sulla soglia guardando fisso i fili obliqui della pioggia, il dolciastro, eccitante odore del fieno
si sentiva più acuto che nei campi; a causa della pioggia e delle nubi c’era un buio crepuscolare.
“Che colpo!” disse Petr Sergeic, avvicinandosi dopo un rombo di tuono fortissimo, mentre il
cielo pareva spaccarsi in due. “Che ne dite?”
Stava vicino a me sulla soglia e respirando forte per la rapida corsa, mi guardava. Notai che mi
ammirava.
“Natalia Vladimirova,” disse, “darei tutto al mondo per restare più a lungo così a guardarvi.
Oggi siete incantevole.”
I suoi occhi mi fissavano entusiasti, supplichevoli, il viso era pallido, sulla barba e sui baffi
brillavano gocce di pioggia che parevano anch’esse guardarmi con amore.
“Io vi amo.” disse, “Vi amo e sono felice perché vi vedo. So che non potrete essere mia moglie,
ma io non voglio nulla, solo sappiate che vi amo. Tacete, non rispondete, non fate così, ma sappiate
solo che mi siete cara, e permettetemi di guardarvi.”
Il suo rapimento si comunicò anche a me. Guardavo il suo volto ispirato, ascoltavo la voce che
si confondeva col rumore della pioggia e come incantata non potevo muovermi. Avrei voluto senza
fine guardare gli occhi lucenti e ascoltare.
“Voi tacete. E va benissimo” disse Petr Sergeic. “Continuate a tacere.”
Mi sentivo felice. Cominciai a ridere per la contentezza e corsi in casa, sotto la pioggia
scrosciante; e anche lui rise e correndo mi seguì.
Facendo gran rumore, come bambini, fradici, senza fiato, battendo i piedi sulle scale,
irrompemmo nelle stanze. Mio padre e mio fratello, non avvezzi a vedermi ridente e allegra, mi
guardavano meravigliati e si misero a ridere anch’essi.
Le nubi temporalesche erano passate, il tuono taceva, e sulla barba di Petr Sergeic brillavano
ancora le stille della pioggia. Tutta la sera fino all’ora di cena cantò, fischiettò, giocò facendo un
gran chiasso col cane, rincorrendolo attraverso le stanze, e rischiò perfino di rovesciare il servo col
samovar. E a cena mangiò molto, disse molte sciocchezze, e assicurò che, se l’inverno si mangiano
dei cetrioli freschi, si sente in bocca odore di primavera.
Andando a coricarmi, accesi una candela e spalancai la finestra, e un sentimento indefinibile si
impadronì della mia anima. Mi ricordai di essere libera, sana, ricca, di avere un cognome noto, di
essere amata, ma specialmente di essere di casata illustre e ricca - di casata illustre e ricca – che
fortuna, mio Dio!... Poi, rannicchiandomi nel letto per il freddo leggero che era salito verso di me
dal giardino con la rugiada, cercai di capire se amavo Petr Sergeic o no… Non avendo concluso
niente, mi addormentai.
E quando al mattino scorsi sul letto i raggi tremuli del sole e le ombre dei tigli, nella mia mente
risuscitò vivamente la scena della sera prima. La vita mi parve ricca, variata, piena di fascino.
Canticchiando mi vestii in fretta e scappai nel giardino…
E poi cosa accadde? E poi – nulla. In inverno, mentre eravamo in città, Petr Sergeic veniva di
quando in quando a trovarci. I conoscenti della campagna sono affascinanti solo in campagna e
d’estate; in città e d’inverno perdono la metà del loro incanto. Quando in città offri loro il tè, ti pare
che portino degli abiti altrui e che non la finiscano mai di rimescolare col cucchiaino nel tè. Anche
in città Petr Sergeic parlava qualche volta d’amore, ma l’impressione non era più quella della
campagna. In città sentivamo più fortemente la muraglia che ci separava: io ero ricca e di casata
illustre e lui era povero, non era neanche nobile, figlio di un diacono e sostituto giudice istruttore e
nient’altro; tutti e due – io per la mia giovinezza, lui Dio solo sa perché – ritenevamo questa
muraglia troppo alta e grossa e lui, venendo da noi in città, sorrideva forzatamente e criticava il bel
mondo, e taceva tetro quando c’era qualcuno nel salotto. Non c’è muro che non si possa forare, ma
gli eroi dei romanzi moderni per quanto io li conosco, sono troppo timidi, indolenti, pigri e
diffidenti e troppo presto si rassegnano all’idea che non hanno fortuna, che la vita personale li ha
ingannati; invece di combattere criticano, e chiamano il mondo triviale, dimenticando che la loro
stessa critica finisce per essere una trivialità.
Ero amata, la felicità era vicina, pareva essere al mio fianco. Vivevo spensierata, senza cercare
di capirmi, senza sapere che cosa aspettassi e che cosa desiderassi dalla vita… e il tempo passava,
passava. Mi passavano accanto gli uomini col loro amore, fuggivano i chiari giorni, le tiepide notte,
cantavano gli usignoli, il fieno odorava. E tutto ciò che è caro e prodigioso nel ricordo, per me,
come per tutti, passava rapido, senza lasciar tracce, non apprezzato, e spariva come nebbia… Dov’è
ora tutto ciò?
Il babbo morì, io invecchiai; tutto ciò che mi piaceva, mi lusingava, mi dava una speranza – il
rumore della pioggia, i rombi del tuono, i pensieri di felicità, i discorsi d’amore – tutto ciò è
diventato un puro ricordo, ed io vedo davanti a me un eguale deserto; nel piano non c’è anima viva
e là sull’orizzonte è scuro e spaventoso…
Un colpo di campanello… E’ Petr Sergeic. Quando nell’inverno vedo gli alberi e ricordo come
verdeggiavano per me nell’estate, mormoro:
“Oh, miei cari!”
E quando vedo gli uomini coi quali ho vissuto la mia primavera, sento una tristezza, un tepore e
balbetto sempre lo stesso.
Già da molto tempo, per la protezione di mio padre, Petr Sergeic è stato trasferito in città. E’ un
po’ invecchiato, un po’ malandato. Da un pezzo ha smesso di parlarmi d’amore, non dice più
sciocchezze, non è contento del suo servizio, è sempre un po’ malato, deluso di qualcosa, dice addio
alla vita e vive senza voglia di vivere. Ecco, si è seduto davanti al camino e guarda il fuoco in
silenzio… Io, non sapendo che dire, ho domandato:
“Che c’è, dunque?”
“Niente,” ha risposto lui.
E di nuovo il silenzio. Il riflesso del fuoco saltellava sul suo viso triste.
Mi sono ricordata del passato e a un tratto le mie spalle hanno sussultato, la testa si è abbassata e
ho pianto amaramente. Sentivo una intollerabile pietà di me e di quell’uomo e avrei voluto
appassionatamente ciò che è passato e che ora la vita ci rifiuta. Ora non pensavo più che sono di
nobile casata e ricca.
Singhiozzai forte, premendomi le tempie, e balbettai:
“Mio Dio, mio Dio, la vita è perduta…”
Ed egli sedeva, taceva e non mi diceva “Non piangete.” Egli capiva che bisognava piangere e
che era venuto il tempo delle lacrime. Vedevo dai suoi occhi che aveva pietà di me e anch’io avevo
pietà di lui e insieme irritazione per quel timido vinto che non aveva saputo creare né la mia vita, né
la sua.
Quando l’ho accompagnato nell’anticamera, mi è parso che a bella posta abbia indossato
lentamente la pelliccia. Due volte in silenzio mi ha baciato la mano, mi ha guardata nel viso
inondato di lacrime. Penso che in quell’istante si ricordasse del temporale, delle strisce oblique,
della pioggia, delle nostre risa, del mio volto di allora. Avrebbe voluto dire qualche cosa, sarebbe
stato felice di dirmela, ma non ha detto nulla e solo ha scosso il capo e mi ha stretto forte la mano.
Che Dio sia con lui!
Dopo averlo accompagnato, sono tornata nello studio, mi sono seduta di nuovo sul tappeto
davanti al camino. La brace ardente si copriva di cenere, si spegneva a poco a poco. Il gelo ancor
più irritato ha cominciato a battere alla finestra e il vento a cantare qualche cosa nel tubo del
camino.
E’ entrata la cameriera e, credendomi addormentata, mi ha chiamata ad alta voce.

"Il Principe Felice" di Oscar Wilde.


Alta sopra la città, su una lunga, esile colonna sporgeva la statua del Principe Felice. Era tutto dorato di sottili foglie d'oro fino, i suoi occhi erano due lucenti zaffiri, e un grande rubino rosso luccicava sull'elsa della sua spada.

Tutti lo ammiravano. “E' bello come una banderuola” osservò un giorno uno degli assessori di città che ambiva farsi una reputazione d'uomo di gusto; "però è meno utile" si affrettò a soggiungere, per timore che la gente lo giudicasse privo di senso pratico, cosa che egli non era affatto.
"Perché non sai comportarti come il Principe Felice?" chiese una madre piena di buon senso al suo bambino che piangeva perché voleva la luna. "Il Principe Felice non si sogna mai di piangere per nulla".
"Sono contento che a questo mondo ci sia qualcuno veramente felice" borbottò un uomo disilluso ammirando la splendida statua.
"Assomiglia a un angelo" dissero i Trovatelli uscendo dalla cattedrale nei loro lucenti mantelli scarlatti e nei loro lindi grembiulini candidi.
"Come fate a dire questo?" osservò il professore di matematica, "se non ne avete mai veduti!"
"Oh, si, che ne abbiamo visti, nei nostri sogni!" risposero i bambini, e il professore di matematica aggrottò la fronte e fece la faccia scura, perché non trovava giusto che i bambini sognassero.

Una sera volò sulla città un Rondinotto. I suoi amici se n'erano andati in Egitto sei settimane innanzi, ma egli era rimasto indietro perché si era innamorato di una bellissima Canna. L'aveva conosciuta al principio di primavera mentre volava giù per il fiume in caccia di una grossa falena gialla, ed era stato talmente attratto dalla sua vita sottile che si era fermato a parlarle.
"Vuoi che m'innamori di te?" le aveva chiesto il Rondinotto, cui piaceva venir subito al sodo, e la Canna gli aveva fatto un profondo inchino. Così egli le volò più volte intorno, sfiorando l'acqua con le ali, e increspandola di cerchi argentei. Questa fu la sua corte, e durò tutta l'estate.
"Proprio un attaccamento ridicolo," garrivano le altre Rondini, "E' senza un soldo, ma in compenso ha un sacco di parenti," e a dire il vero il fiume era zeppo di Canne.
Poi, non appena venne l'autunno, le Rondini volarono via tutte. Quando se ne furono andate il Rondinotto si sentì solo, e incominciò a stancarsi della sua bella.
"Non sa conversare" si disse, "e temo sia una civetta poiché seguita a frascheggiare col vento." E infatti, ogni volta che il vento spirava, la Canna si piegava con inchini graziosissimi.
"Riconosco che sei casalinga," prosegui il Rondinotto, "ma a me piace viaggiare e di conseguenza anche a mia moglie dovrebbero piacere i viaggi".
"Vuoi venir via con me?" le chiese infine, ma la Canna scosse la testa, era troppo affezionata alla sua casa. "Tu mi hai preso in giro!" gridò il Rondinotto. "Me ne vado alle Piramidi. Addio!" e volò via.
Volò tutto il giorno, e a sera giunse alla città.
"Dove alloggerò?" si disse. "Spero mi abbiano preparato dei festeggiamenti."
Ma poi notò la statua sull'alta colonna. "Andrò ad abitare lì," esclamò. "La posizione è bellissima, e ci si deve respirare dell'ottima aria fresca."

Così si posò proprio tra i piedi del Principe Felice.
"Ho una camera da letto tutta d'oro" mormorò sottovoce tra sé e sé, guardandosi attorno e preparandosi per la notte, ma giusto mentre stava mettendo la testa sotto l'ala gli cadde addosso una grossa goccia d'acqua.
"Che cosa strana!" esclamò. "In cielo non c'è neanche la più piccola nuvola, le stelle sono chiare e luminose, eppure piove. Il clima del Nord Europa è semplicemente spaventoso. Alla Canna la pioggia piaceva, ma questo era dovuto unicamente al suo egoismo".
In quella cadde un'altra goccia.
"A che serve una statua se non riesce a riparare dalla pioggia?" brontolò ; "bisogna che mi cerchi un buon comignolo," e fece per volarsene via. Ma proprio mentre stava per aprire le ali una terza goccia cadde, ed egli allora alzò gli occhi e vide... ah, che cosa vide ? Gli occhi del Principe Felice erano gonfi di lagrime, e lagrime rigavano le sue guance dorate. Il suo viso era cosi bello sotto la luce della luna che il piccolo Rondinotto si senti invadere da una profonda pietà.
"Chi sei?" chiese.
"Sono il Principe Felice".
"Perché piangi, allora? Mi hai inzuppato tutto."
"Quando ero vivo e avevo un cuore umano," rispose la statua, "non sapevo che cosa fossero le lagrime, perché abitavo nel Palazzo di Sans-Souci, dove al dolore non è permesso di entrare. Durante il giorno giocavo coi miei compagni nel giardino, e la sera guidavo le danze nella Grande Sala. Intorno al giardino correva un muro altissimo, ma mai io mi curai di sapere che cosa si stendesse al di là di esso, ogni cosa intorno a me era cosi bella! I miei cortigiani mi chiamavano il Principe Felice, e se il piacere è felicità, io ero veramente felice. Cosi vissi, e cosi morii. E ora che sono morto mi hanno messo qui tanto in alto che adesso vedo tutta la bruttezza e tutta la miseria della mia città, e sebbene il mio cuore sia di piombo altro non mi resta che piangere".
"Come mai? Non é d'oro massiccio?" si chiese mentalmente il Rondinotto, perché era troppo educato per rivolgere ad alta voce domande di carattere personale.
"Lontano lontano," proseguì la statua con la sua dolce voce musicale, "lontano in una stradina c'è una povera casa. Una finestra di questa casa è aperta e attraverso vi vedo una donna seduta a un tavolo. Ha il viso magro e sciupato, e le sue mani sono rosse e ruvide e tutte bucherellate dall'ago, poichè fa la cucitrice. Sta ricamando passiflore su un abito di raso che la più bella tra le damigelle d'onore della Regina indosserà al prossimo ballo di Corte. In letto, in un angolo della stanza, il suo bambino giace ammalato. Ha la febbre e vorrebbe mangiare delle arance, ma sua madre non ha nulla da dargli, fuorchè acqua di fiume, perciò il bambino piange. Rondinotto, piccolo Rondinotto, non gli porteresti il rubino che luccica sull'elsa della mia spada ? I miei piedi sono attaccati a questo piedistallo e io non mi posso muovere".
"Sono aspettato in Egitto" rispose il Rondinotto. "I miei amici in questo momento volano sul Nilo, e discorrono con i grandi fiori di loto. Tra poco andranno a dormire nella tomba del gran Re, dove il Re stesso riposa nel suo sarcofago dipinto, avvolto in gialli lini e imbalsamato con aromi. Ha il collo adorno di una collana di giada verde pallida, e le sue mani assomigliano a foglie avvizzite".
"Rondinotto, Rondinotto, piccolo Rondinotto" disse il Principe, "non vuoi restare con me per una notte soltanto, ed essere il mio messaggero? Il bambino ha tanta sete, e la madre è cosi triste!"
"Non credo che mi piacciano i bambini" replicò il Rondinotto. "L'estate scorsa, quando stavo sul fiume, c'erano due ragazzi maleducati, i due figliuoli del mugnaio, che mi tiravano sempre sassi. Naturalmente non mi hanno mai preso, si capisce: noi rondini voliamo troppo bene per lasciarci colpire, e del resto io vengo da una famiglia famosa per la sua agilità ; comunque però era una grave mancanza di rispetto".
Ma il Principe Felice aveva un viso cosi doloroso che il Rondinotto ne provò pena. "Qui fa molto freddo" disse, "ma per farti piacere resterò ancora una notte e sarò tuo messaggero".
"Grazie, piccolo Rondinotto" disse il Principe.

Cosi il Rondinotto colse il grande rubino che ornava la spada del Principe e volò sopra i tetti della città, tenendo stretto il gioiello nel becco appuntito. Passò accanto alla torre della cattedrale, su cui erano scolpiti i grandi angeli di marmo. Passò accanto al palazzo e udì un suono di danze.
Una fanciulla bellissima si affacciò al balcone col suo innamorato. "Guarda che stelle meravigliose" egli le disse, "e come è meraviglioso il potere dell'amore ! "
"Spero che il mio vestito sarà pronto per quando ci sarà il ballo di Stato" rispose la fanciulla. "Ho ordinato che sia ricamato a passiflore, ma le cucitrici sono talmente pigre ! "
Passò sopra il fiume, e vide le lanterne appese agli alberi delle navi. Passò sul Ghetto, e vide i vecchi Ebrei che contrattavano tra di loro, e pesavano il danaro su bilance di rame. E finalmente giunse alla povera casa e vi guardò dentro. Il bambino si agitava febbrilmente sul letto, mentre la madre si era addormentata: era tanto stanca! Saltellò nella stanza e posò il grosso rubino sul tavolo, accanto al ditale della donna. Poi volò piano attorno al letto, e accarezza con le sue ali la fronte del piccolo, facendogli vento dolcemente.
"Come mi sento fresco!" disse il bambino. "Forse incomincio a star meglio" e si addormentò di un sonno tranquillo.
Allora il Rondinotto rivolò dal Principe Felice e gli raccontò quello che aveva fatto. "E' strano" osservò, "ma benché faccia un freddo cane adesso ho caldo."
"Perché hai compiuta una buona azione" gli disse il Principe.
Il piccolo Rondinotto incominciò a pensare, ma subito si addormentò: il pensare gli metteva sempre addosso un gran sonno.
Quando il giorno spuntò, volò giù al fiume e prese un bagno.
"Che fenomeno straordinario!" esclamò il Professore di Ornitologia che passava in quel momento sul ponte. "Una Rondine d'inverno!" E mandò al giornale locale una lunga lettera in proposito. Tutti la citarono: era costellata di un sacco di vocaboli che nessuno capiva.
"Questa sera parto per l'Egitto" disse il Rondinotto, e questa previsione lo mise di ottimo umore. Visitò tutti i monumenti pubblici, e rimase a lungo seduto in cima al campanile della chiesa. Dovunque andava i Passeri cinguettavano e bispigliavano tra di loro: "Che forestiero distinto!" Cosicchè il Rondinotto si diverti un mondo.
Quando la luna sorse rivolò dal Principe Felice. "Hai qualche commissione da darmi per l'Egitto?" disse. Sono di partenza.
"Rondinotto, Rondinotto, piccolo Rondinotto" disse il Principe, "non vuoi restare con me ancora una notte?"
"In Egitto mi aspettano" rispose il Rondinotto. "Domani i miei amici voleranno fino alla Seconda Cateratta. Laggiù, tra i giunchi, se ne sta accovacciato l'ippopotamo, e su un grande trono di granito siede il Dio Memnone. Tutta la notte egli contempla le stelle, e quando risplende la stella del mattino proferisce un unico grido di gioia, e poi tace. A mezzogiorno i leoni fulvi scendono a bere all'orlo dell'acqua. Hanno occhi simili a verdi berilli, e il loro ruggito è più forte del ruggito della cateratta".
"Rondinotto, Rondinotto, piccolo Rondinotto" disse il Principe, "lontano lontano, dall'altra parte della città, vedo un giovane in una soffitta, appoggiato a una scrivania ingombra di carte, e in un boccale accanto a lui c'è un mazzolino di viole appassite. Ha i capelli bruni e crespi, le sue labbra sono rosse come una melagrana, e i suoi occhi sono grandi e sognanti. Sta sforzandosi di terminare una commedia per il Direttore del Teatro, ma ha troppo freddo per poter seguitare a scrivere. Non c'è fuoco nel suo camino, e la fame lo ha fatto svenire".
"Va bene, aspetterò presso di te un'altra notte" disse il Rondinotto, che aveva proprio un cuore d'oro. "Devo portargli un altro rubino?"
"Ahimè, non ho più rubini, ormai" disse il Principe, "tutto ciò che mi è rimasto sono i miei occhi, ma sono fatti di zaffiri rari, e furono portati dall'India più di mille anni fa. Strappane uno e portaglielo. Lo venderà al gioielliere, e si comprerà legna da ardere, e finirà la sua commedia".
"Caro Principe" disse il Rondinotto, "io non posso fare questo"
"Rondinotto, Rondinotto, piccolo Rondinotto" disse il Principe, piangendo, "ubbidiscimi, ti prego".
Cosi il Rondinotto strappò l'occhio del Principe e volò fino alla soffitta dello studente. Era facile entrarvi, perché nel tetto c'era un buco. Il Rondinotto vi sfrecciò attraverso, e penetrò nella stanza. Il giovane aveva il capo affondato tra le mani, perciò non avvertì il frullio d'ali dell'uccello, e quando alzò gli occhi vide il bellissimo zaffiro adagiato in mezzo alle viole appassite.
"Incominciano ad apprezzarmi!" gridò; "certo me lo manda qualche grande ammiratore. Adesso potrò finalmente terminare la mia commedia!" Ed era tutto felice.
Il giorno dopo il Rondinotto volò giù al porto. Si posò sull'albero di una grossa nave e stette a osservare i marinai che a forza di funi calavano su dalla stiva pesanti casse. "Issa-oh ! " si gridavan l'un l'altro a mano a mano che le casse salivano.
"Io vado in Egitto!" garrì il Rondinotto, ma nessuno gli badò, e quando spuntò la luna volò ancora una volta dal Principe Felice.
"Sono venuto a salutarti" gli disse.
"Rondinotto, Rondinotto, piccolo Rondinotto" disse il Principe, "non vuoi rimanere con me ancora per questa notte?"

"E' inverno ormai" rispose il Rondinotto, "e fra poco arriverà la fredda neve. In Egitto il sole è caldo sulle verdi palme, e i coccodrilli riposano nel fango e si guardano attorno con occhi pigri. I miei compagni stanno costruendo un nido nel Tempio di Baalbec, e le colombe rosee e bianche li guardano, e tubano tra loro. Caro Principe, debbo lasciarti, ma non ti dimenticherò mai, e la prossima primavera ti porterò due gemme bellissime, al posto di quelle che tu hai regalate. Il rubino sarà più rosso di una rosa rossa, e lo zaffiro sarà azzurro come il vasto mare".
"Nella piazza qua sotto" disse il Principe Felice, "ci sta una piccola fiammiferaia. I fiammiferi le sono caduti nella cunetta del marciapiedi, e si sono tutti bagnati. Suo padre la picchierà se non porterà a casa un po' di danaro, e perciò la piccola piange. Non ha nè calze nè scarpe, e la sua testolina è nuda. Strappa l'altro mio occhio e portaglielo, cosi suo padre non la batterà".
"Resterò con te ancora per questa notte" disse il Rondinotto, "ma non posso strapparti l'altro occhio. Rimarresti completamente cieco".
"Rondinotto, Rondinotto, piccolo Rondinotto" disse il Principe, "fa come ti dico".
Cosi il Rondinotto strappò l'altro occhio del Principe e sfrecciò giù nella piazza. Passò roteando accanto alla piccola fiammiferaia e le fece scivolare il gioiello nel palmo della mano.
"Che bel pezzettino di vetro!" esclamò la bambina, e corse a casa ridendo.
Poi il Rondinotto ritornò dal Principe. "Adesso sei cieco" disse, "perciò io resterò con te per sempre".
"No, piccolo Rondinotto" mormorò il povero Principe, "tu devi andare in Egitto".
"Resterò con te per sempre" ripetè il Rondinotto, e dormi ai piedi del Principe. Poi tutto il giorno seguente se ne stette appollaiato sulla spalla del Principe, e gli raccontò quello che aveva veduto in paesi lontani. Gli parlò dei rossi ibis, che sostano in lunghe file sulle rive del Nilo e col becco acchiappano pesciolini dorati ; gli parlò della Sfinge, che è vecchia quanto il mondo, e vive nel deserto, e conosce ogni cosa ; gli parlò dei mercanti che viaggiano piano al fianco dei loro cammelli e recano tra le mani rosari d'ambra ; gli parlò del Re della Montagna della Luna, che è nero come l'ebano, e adora un enorme cristallo ; gli parlò del grande serpente verde che dorme in un palmizio ed è nutrito da venti sacerdoti con focacce di miele ; gli parlò infine dei pigmei che veleggiano su un grande lago sopra larghe foglie piatte e sono sempre in guerra con le farfalle.
"Caro Rondinotto" disse il Principe, "tu mi parli di cose meravigliose, ma più meraviglioso di qualsiasi cosa è il dolore degli uomini e delle donne. Non vi è Mistero più grande della Miseria. Vola sulla mia città, piccolo Rondinotto, e raccontami quello che vedi".

Cosi il Rondinotto volò sopra la grande città, e vide i ricchi gozzovigliare nelle loro splendide dimore, mentre i poveri sedevano fuori, ai cancelli. Volò in bui vicoli, e vide i visi bianchi dei bambini affamati che fissavano con occhi assenti le strade oscure.
Sotto l'arcata di un ponte due ragazzini si stringevano l'uno all'altro cercando di riscaldarsi a vicenda.
"Che fame, abbiamo ! " dicevano.
"Non potete dormire laggiù" gridò la guardia, e i due bambini si allontanarono sotto la pioggia.
Allora il Rondinotto tornò indietro e raccontò al Principe quello che aveva veduto.
"Sono tutto ricoperto d'oro fino" disse il Principe, "tu devi togliermelo di dosso, foglia per foglia, e darlo ai miei poveri : i vivi credono che l'oro possa renderli felici".
Il Rondinotto piluccò via foglia dopo foglia del fine oro, finchè il Principe Felice divenne tutto opaco e grigio. Foglia per foglia del fine oro egli portò ai poveri, e le facce dei bambini si fecero più rosate, ed essi risero e giocarono giochi infantili nelle strade.
"Abbiamo pane, adesso ! " gridavano.
Poi venne la neve, e dopo la neve venne il gelo. Le strade sembravano pavimentate d'argento, tanto erano lucide e scintillanti ; lunghi ghiaccioli, simili a lame di cristallo, pendevano dalle gronde delle case ; tutti giravano impellicciati e i ragazzini indossavano cappucci scarlatti e pattinavano sul ghiaccio.
Il povero piccolo Rondinotto aveva sempre più freddo, ma non voleva lasciare il Principe ; gli voleva troppo bene. Raccoglieva briciole fuor dell'uscio del fornaio quando questi aveva la schiena voltata, e cercava di scaldarsi battendo le ali.
Ma alla fine capì che era prossimo a morire. Ebbe giusto la forza di volare un'ultima volta sulla spalla del Principe.
"Addio, caro Principe" mormorò, "mi permetti che ti baci la mano? "
"Sono contento che tu vada in Egitto, finalmente, piccolo Rondinotto" disse il Principe, "sei rimasto qui anche troppo tempo, ma tu devi baciarmi sulle labbra, perché io ti amo".
"Non è in Egitto che io vado" disse il Rondinotto, "vado alla Casa della Morte. La Morte non è forse la sorella del Sonno ? " E baciò il Principe Felice sulle labbra, e cadde morto ai suoi piedi.
In quel momento si udì nell'interno della statua uno strano crac, come se qualcosa si fosse rotto. Il fatto è che il cuore di piombo si era spaccato netto in due.

Certo faceva un freddo cane. Il mattino seguente per tempo il Sindaco andò a passeggiare nella piazza sottostante in compagnia degli Assessori. Nel passare dinnanzi alla colonna alzò gli occhi verso la statua :
"Dio mio ! Com'è conciato il Principe Felice ! " esclamò.
"Davvero ! Com'è conciato ! " esclamarono gli Assessori che ripetevano sempre quel che diceva il Sindaco, e andarono tutti su per vedere meglio.
"Gli è caduto il rubino dall'elsa della spada, gli occhi non ci sono più, e la doratura è scomparsa" disse il Sindaco, "insomma, sembra poco meno che un accattone!"
"Poco meno che un accattone" ripeterono in coro gli Assessori civici.
"E qui, ai piedi della statua, c'è persino un uccello morto ! " proseguì il Sindaco. "Dobbiamo assolutamente emanare un'ordinanza che agli uccelli non sia permesso di morire qui ! "
E lo Scrivano Pubblico prese appunti per la stesura del decreto.
Cosi tirarono giù la statua del Principe Felice.
"Dal momento che non è più bello non è nemmeno più utile" osservò il Professore di Belle Arti dell'Università.
Quindi fusero la statua in una fornace e il Sindaco indisse un'adunanza della Corporazione per decidere quel che si doveva fare del metallo.
"Dobbiamo costruire un'altra statua" disse, "e sarà la mia statua".
"La mia" ripeté ciascuno degli Assessori, e litigarono. L'ultima volta che ebbi loro notizie stavano ancora litigando.
"Che cosa curiosa ! " disse il sorvegliante degli operai della fonderia. "Questo rotto cuore di piombo non vuole fondersi nella fornace. Bisogna che lo gettiamo via".
E lo gettarono infatti su un mucchio di spazzatura dove avevano buttato anche il Rondinotto morto.


"Portami le due cose più preziose che trovi nella città" disse Dio a uno dei Suoi Angeli ; e l'Angelo Gli portò il cuore di piombo e l'uccello morto.
"Hai scelto bene" gli disse Dio, "poichè nel mio giardino del Paradiso questo uccellino canterà in eterno, e nella mia città d'oro il Principe Felice mi loderà".